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Donne resistenti: storie di partigiane

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«Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare “Ah, povera Italia!”, perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città». I ventitré giorni di Alba, Giuseppe Fenoglio

Inizio con le parole di uno scrittore a me caro questo piccolo articolo che è una raccolta di storie, nient’altro. Come lo scorso anno a quest’ora, sto navigando sul sito dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia e sto vagando di regione in regione per scoprire i nomi delle donne che hanno fatto la Resistenza. Percentualmente, sono meno degli uomini – l’Anpi parla di 35.000 combattenti e di 70.000 che fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna: 4653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate; 1070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare. Vi regalo qualcuna delle loro storie. È il nostro modo, qui al Salone, di fermarci in un giorno che non è solo un giorno di vacanza, ma un ricordo che va conservato. E mantenuto vivo.

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In Piemonte c’era Teresa Bruneri Pomelli. Nata a a Rossiglione (Genova) il 18 agosto 1912, fucilata a Cafasse (Torino) il 1° dicembre 1944. Faceva la casalinga a Cafasse, ed era entrata nella Resistenza nel novembre del 1943, come staffetta della 16ma Brigata Garibaldi. Col marito Luigi Pomelli si trasferì a Torino, dove non abbandonò il proprio impegno con la terza Brigata SAP autonoma. I partigiani la conoscevano col suo nome di battesimo e così anche i fascisti che la arrestarono nell’agosto del ’44 e la incarcerarono nella caserma di via Asti, dove Teresa rimase fino a dicembre. A quel punto fu presa, portata a Cafasse e fucilata davanti a quella che i fascisti ritenevano fosse ancora la sua abitazione di via Roma. Una lapide la ricorda oggi in via Fabrizi, dove abitava a Torino.

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Era di Bologna Irma Bandiera, nata l’8 aprile del 1915 e fucilata il 14 agosto 1944 ai piedi della collina di San Luca. Medaglia d’oro al valore militare alla memoria con la seguente motivazione: «Prima fra le donne bolognesi ad impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà…», dopo la fucilazione il suo corpo venne lasciato esposto sulla strada per una giornata, come ammonimento. Irma era di famiglia benestante, e iniziò le sue attività come staffetta nella 7a G.A.P. I nazifascisti la catturarono al termine di uno scontro a fuoco e per sei giorni la torturarono cercando di farle confessare i nomi dei suoi compagni. Irma non parlò, neppure quando la portarono davanti alla sua casa, minacciandola che se non avesse parlato non avrebbe più rivisto i suoi. Irma continuò a non parlare. La accecarono. Poi la fucilarono.

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Anche a Norma Parenti Patrelli nata e morta a Massa Marittima (1921-23 giugno 1944) fu conferita la Medaglia d’oro al valore militare alla memoria, con questa motivazione: «Giovane sposa e madre, fra le stragi e le persecuzioni, mentre nel litorale maremmano infieriva la rabbia tedesca e fascista, non accordò riposo al suo corpo né piegò la sua volontà di soccorritrice, di animatrice, di combattente e di martire. Diede alle vittime la sepoltura vietata, provvide ospitalità ai fuggiaschi, libertà e salvezza ai prigionieri, munizioni e viveri ai partigiani e nei giorni del terrore, quando la paura chiudeva tutte le porte e faceva deserte le strade, con l’esempio di una intrepida pietà donò coraggio ai timorosi e accrebbe la fiducia ai forti. Nella notte del 22 giugno, tratta fuori dalla sua casa, martoriata dalla feroce bestialità dei suoi carnefici, spirò, sublime offerta alla Patria, l’anima generosa». Norma era partigiana del raggruppamento Amiata della III Brigata Garibaldi, e nella piccola trattoria del suo paese, gestita dalla madre, indusse alla diserzione numerosi prigionieri di nazionalità straniera. Ma fece molto altro: raccolse denaro, diede ospitalità ai fuggiaschi, mise in salvo ex prigionieri alleati, procurò armi e munizioni e partecipò di persona a pericolose azioni di guerra. Fu tradita, catturata e uccisa la notte stessa.

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Medaglia d’argento al valore militare e Stella d’oro al valore partigiano per Rina Chiarini Scappini, operaia di Empoli (16 dicembre 1909-20 ottobre 1995). Suo padre era stato arrestato per la sua attività antifascista, così a 11 anni Rina iniziò a lavorare per contribuire alla sussistenza della famiglia. Assunta come operaia in vetreria iniziò a collaborare col Soccorso Rosso e dal 1926 si iscrisse al Partito comunista clandestino. La sua relazione con Remo Scappini le valse arresti e intimidazioni da parte dei fascisti. I due riuscirono a sposarsi, si trasferirono a Milano e poi a Genova e Rina assunse il nome di “Clara”, come collaboratrice del Comando regionale delle Brigate Garibaldi. Arrestata il 6 luglio del ’44, non confessò alcunché, neppure davanti a Tribunale militare fascista, il 29 luglio del 1944. Condannata a 24 anni di carcere, e trasportata nel lager di Bolzano, dal quale evase nel marzo del ’45. Il 26 aprile si ricongiunse al marito.

Quelle che vi ho proposto sono solo poche storie. Molte altre potrete trovarle nella sezione Donne e Uomini della Resistenza, che racchiude oltre 3000 ritratti, una piccola ma importantissima parte di tutti coloro che parteciparono alla lotta antifascista e antinazista.

di Silvia Ceriani

Per approfondire, vedi anche Le donne nella Resistenza



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